Non c’è moda senza memoria

Il disastro di Seàn McGirr da McQueen si poteva evitare. Ma c’è una soluzione. 

Il filo comune che unisce le quattro fashion week andate in scena di recente è la memoria. Che sia integra, violata, rielaborata o rieducata, l’importante è che ci sia perché la totale assenza di punti di riferimento preesistenti può causare cortocircuiti disastrosi e letali. 

È il caso di Seàn McGirr, direttore creativo di Alexander McQueen dallo scorso ottobre, che non ha saputo maneggiare con cura l’eredità polisemica del suo fondatore, tragicamente scomparso nel 2010. 

Nonostante la maggior parte degli stilisti presenti nei giorni scorsi a New York, Londra, Milano e Parigi abbia dimostrato grande attaccamento ai riferimenti storici dei brand per cui sono stati chiamati a lavorare (ne avevo parlato qui), qualcuno ha fatto eccezione. E così, il giovane Seàn, pupillo di Burberry e fresco di gavetta da JW Anderson, ha accettato con coraggio l’incarico di direttore creativo con l’intento di onorare la memoria di Alexander McQueen.

Prima della sfilata aveva dichiarato: 

For me, it’s about letting the light in, ovvero: si tratta di far entrare la luce.

Purtroppo questo non è avvenuto. Anzi, ha fatto sprofondare il brand in tenebre talmente profonde da chiedersi se e come sarà possibile risollevarsi. 

Mi spiego meglio.

Lee Alexandr McQueen fondò il marchio nel 1992, navigando tra le difficoltà che il sistema moda britannico non riusciva a risolvere. Nonostante si fosse laureato presso la prestigiosa Central Saint Martin’s School of Art, non ricevette alcun supporto, né finanziario né creativo, dalle istituzioni.

Tuttavia, la sua straordinaria identità attirò presto l’attenzione di importanti brand di lusso, primo tra tutti Givenchy, che lo scelse per sostituire John Galliano. Furono questi gli anni fondamentali per definire la sua estetica affilata e tagliente, che non aveva niente a che fare con la vendibilità e le logiche di mercato, bensì con l’innovazione delle ormai obsolete linee dell’alta moda francese.

Fin dalla sua prima collezione nel 1992, McQueen utilizzava gli abiti come mezzo per trasmettere la delusione, la frustrazione e il disincanto verso il momento storico che stava vivendo. La situazione internazionale, caratterizzata dalle guerre del Golfo e della ex Jugoslavia, influenzava profondamente il clima sociale e culturale dell’epoca. Insieme ad altri giovani stilisti come Martin Margiela e Viktor & Rolf, McQueen rifletteva il disagio causato da questi eventi con creazioni cariche di protesta. La crisi economica aggiungeva ulteriori pressioni, contribuendo a rendere il futuro incerto e poco promettente. 

Egli riuscì a trasformare queste esperienze interiorizzandole in un vortice di emozioni e significati che diedero vita a collezioni impensabili. Il suo approccio anarchico e ribelle, ma al contempo profondo, sfidava lo status quo e incendiava gli animi, spingendo le coscienze verso una reazione. Affrontando l’asprezza degli anni Novanta, toccò tasti delicati quali l’abuso, la violenza carnale e l’oltraggio, creando uno storytelling difficile da sopportare ma paradossalmente affascinante da contemplare.

L’estetica di Alexander Lee McQueen dal 1992 al 2010

Quanto c’era di McQueen nella sfilata di McGirr? Zero. In soli due mesi, il giovane irlandese ha azzerato l’heritage di uno degli esempi più riusciti di moda inglese, cancellando persino il lavoro della precedente direttrice creativa e amica di McQueen, Sarah Burton, costruito in venticinque anni. Perché? Perché la differenza la fa il bagaglio culturale. La generazione attuale degli stilisti, in gran parte composta da Millenials, ha collezionato esperienze personali limitate e non ha vissuto un periodo storico altrettanto difficile e sfidante. E senza il giusto background culturale, è difficile cambiare la narrativa.

La collezione in pillole

  • spille da balia come chiusure per cappotti e blazer
  • spalle spigolose
  • maglioni con maniche lunghissime e colli oversize che coprono metà viso 
  • abiti-scultura cromati in giallo Lamborghini e blu lucido
  • stivali con forma e peso di zoccoli di cavallo
  • eleganza distorta attraverso abiti drappeggiati e impermeabili con vita fasciata 

Reference del tema scelto

  • la collezione “The Birds” che McQueen creò per la primavera 1995 (ma secondo me anche quella del ‘97 “It’s a jungle out there” dove c’erano corna di animali)
  • la sua Irlanda (e gli indigeni Travellers che indossavano stivali con zoccoli di cavallo)
  • il mondo animale
  • dipinti di David Hammons
  • le sculture automobilistiche di John Chamberlain (inoltre, il papà dello stilista era un meccanico di auto)
  • foto varie raccolte nella galleria del suo cellulare (tra cui compaiono le LondonersKate Moss e Amy Winehouse)
  • l’energia fresca e sfacciata dei Millenials come lui

McQueen by Sean McGirr – FW24

Soluzioni Possibili

Allo stato attuale delle cose, sembra che McGirr sia tanto giovane quanto volenteroso di lasciare il segno. I commenti post-sfilata, sia online che offline, sono pieni di sdegno nei suoi confronti. Tuttavia, è importante ricordare che errare è umano (e anche sacrosanto). C’è chi, senza fare nomi, sostiene che il pubblico non sia abbastanza bravo da recepire i movimenti comunicativi o artistici, e chi, come McGirr, sicuramente cercherà di correggere il tiro. Anche perché, va detto che la colpa di questo disastro, raccontato in 52 look, non ricade solo su di lui, ma coinvolge più persone.

Se è vero che lo stilista dovrà correre nell’archivio di McQueen per studiarlo meglio e uscirne solo quando l’avrà davvero capito, è altrettanto importante che arricchisca il suo bagaglio culturale con esperienze personali e collettive. È necessario che si sporchi le mani, che sperimenti e che esplori fino in fondo per crescere e migliorare. Gli stilisti degli anni Novanta, da Tom Ford a Martin Margiela, si lanciavano in esperimenti impensati, desiderosi di creare con qualsiasi cosa gli passasse tra le mani.

Detto questo, coloro che lavorano a stretto contatto con McGirr non sembrano volergli molto bene. La location, sebbene abbandonata come le peggiori stazioni ferroviarie della periferia sud-est di Parigi, non trasmetteva il tipico decadimento delle sfilate di McQueen o Burton. La scelta della musica si è rivelata inadatta al contesto, non riuscendo a creare un environment preciso e definito. L’estetica delle modelle non sembrava pensata per evocare l’alienazione caratteristica del brand, quasi come se truccatori e parrucchieri non si fossero nemmeno incontrati nei corridoi. Lo styling poi, su silhouettes compresse e allungate, non è stato impattante e il messaggio finale di “ruvida opulenza” a cui alludeva McGirr non è arrivato ai destinatari in modo chiaro.

La soluzione, quindi, è quella di imbarcarsi in un viaggio introspettivo supportato da tutte le figure professionali coinvolte nella parte creativa. Il lavoro simultaneo di possibili e più efficaci addetti allo styling, al sound, alla fotografia (come Nick Knight che conosceva bene McQueen), al trucco e parrucco, e al casting delle modelle può trasformare un fallimento in un risultato positivo.

Come diceva Rick Owens: 

Lavorare, lavorare, lavorare in silenzio. Più si lavora e più il talento emerge.

Ed è questo l’augurio che rivolgiamo a Seàn e a noi stessi, affinché la moda contemporanea possa riacquistare un senso e un significato profondo, combattendo l’amnesia dilagante del ventunesimo secolo.

News della settimana:

Trend della settimana:

  • Schiaparelli e le meravigliose cravatte intrecciate
  • La pelliccia è tornata in quasi tutte le collezioni, ed è un problema secondo Vogue Business
  • Il sito di forecast più importante studia i trend relativi a store e attività di shopping del prossimo anno 

Grazie per avermi letto. Ci vediamo su Instagram per spiegazioni più approfondite che per motivi di spazio non riesco a inserire qui. 

Vi avverto: ho rispolverato tutto l’archivio McQueen degli anni Novanta per mostrarvi un po’ di foto e collezioni assurde!

Alla prossima settimana con gli Oscar 24 e altre novità.

1 commento su “Non c’è moda senza memoria”

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