La New York Fashion Week ha un messaggio per noi

New York Fashion Week

Una Fashion Week che traccia un nuovo capitolo nel panorama globale. I designer americani riusciranno a riposizionare New York tra le capitali che contano?

La settimana della moda newyorchese si è conclusa pochi giorni fa (è il 16 febbraio 24, ndr) tra vecchie certezze e nuove speranze. Diciamolo, si tratta di un evento con una cassa di risonanza inferiore a quello di Parigi e Milano, se non fosse per fashion editor e stylist (qui sotto fotografate da Sandra Semburg) che con il loro stile unico e ineguagliabile riescono a catalizzare l’attenzione internazionale e, di conseguenza, a dare il giusto spazio alle collezioni americane.

Dopo decenni di sfilate pallide e poco influenti sembra che negli ultimi tempi anche gli stilisti, sia autoctoni che trapiantati, stiano convergendo le loro forze verso l’obiettivo comune di rendere New York essenziale nel panorama globale della moda, riportandola al livello delle capitali europee. Al grido di “Make American Fashion Great Again”, quest’anno i newcomers, o esordientiche dir si voglia,hanno presentato nuovi punti di vista e coraggiosi statement che mancavano da anni. I debutti di Grace Ling e Jane Wade hanno offerto un ready-to-wear casuale e mondano rivisitato, il primo in chiave contemporanea ma inusuale e il secondo in chiave mistica e certamente più volubile. 

Grace Ling e Jane Wade NYF - NEW YORK FASHION WEEK

Tanti altri stilisti hanno seguito le orme di questi due brand per scrivere un nuovo capitolo della New York Fashion Week, da Marcelo Gaia x Mirror Palais, passando per Zoe Gustavia Anna Whalen, fino ad arrivare a Bad Binch Tong Tong di Terrence Zhou.

Un nome invece già noto è quello di Marc Jacobs, che al Park Avenue Armory ha riacceso la fiammella della nostalgia con la sua strabiliante e inaspettata collezione, certamente più matura rispetto a quelle del passato. Uno stilista-artista come lui sa quando e come colpire forte. E l’ha fatto, dopo trent’anni dall’iconica collezione che portava il titolo di “A doll’s wardrobe” creata per l’Autunno-Inverno 1994/95 da Martin Margiela. 

Gli abiti da bambola che sfilano nel 2024 richiamano proprio quelli prodotti in scala negli anni Novanta, ricreando il medesimo effetto straniante per cui la funzione d’uso viene dimenticata in favore della somiglianza agli originali. La differenza, però, sta nello scopo ultimo della sfilata di oggi, cioè scimmiottare i ricchi americani che vivono proprio nel quartiere in cui decide di sfilare, l’Upper East Side. Lui, il designer più americano tra i designer americani, ha le spalle abbastanza larghe da poter schernire e ridicolizzare gli abitanti di quella fetta di America ricca ed eccessiva che non ha niente a che fare con le sue radici e la sua essenza. 

Ciò è paradossale e molto coraggioso se si pensa che i capi dello stilista siano alla portata proprio di quegli stessi benestanti di Uptown. Eppure, sembra che ci sia qualcosa di più importante del ritorno economico per Jacobs, e cioè il ritorno alla moda. 

Ma perché serve un ritorno? E perché farlo tramite bambole stile Polly Pocket con cotonature degne degli anni Ottanta e make up super grafici che avrebbero fatto inorridire persino Twiggy negli anni Settanta?

Perché la moda era scomparsa. Mi spiego meglio. L’avvento di internet – e dei social media come Facebook e Instagram – ha portato alla ridefinizione di nuovi codici, sia comunicativi che stilistici. All’inizio degli anni Duemila, designer, magazine editor, giornalisti e trend forecaster si sono ritrovati davanti a un mezzo nuovo, indecifrabile e a tratti spaventoso, ma dalla portata rivoluzionaria. 

Se la carta stampata aveva eretto muri tra addetti ai lavori e “gente comune che non poteva capire la moda”, internet li ha progressivamente abbattuti tutti. E ha fatto di più. Ha dato a quella stessa gente la libertà di esprimere il proprio gusto. Da quel preciso istante le collezioni sono diventate accessibili e fruibili a chiunque fosse munito di un semplice device elettronico. 

E cosa c’entra questo con il naufragio stilistico dei successivi vent’anni?

C’entra perché quando il sistema moda ha capito la portata dei social, ha cercato di spremerli più che poteva, con o senza mirate strategie di marketing. Con il passare del tempo l’attenzione si è spostata dall’essenza di una collezione alla sua vendibilità. I numeri dei followers, dei like, dei repost, dei commenti, e dei capi venduti ha pian piano usurato le pagine di un racconto fiabesco, cercando di salvaguardare quelle del libro contabile.

E allora quanto coraggio serve oggi per non guardare i numeri ma una visione?

Tanto. Così tanto che lo può fare solo chi ha le spalle larghe e ben strutturate come Marc Jacobs. Lui, che ha tenuto alta la bandiera dello stile americano per anni, oggi prende fiato per gridare al mondo che la moda è tornata. 

Il sottotesto aggiunge “New York è tornata”. Si era persa nell’annacquamento generale di stili poco significativi e non incisivi che sono durati fin troppo. La Grande Mela resta il palcoscenico perfetto per il debutto di nuovi nomi, e questo si traduce in una bassa concentrazione di stilisti affermati capaci di attirare la stampa e i buyers internazionali. Ma è altresì vero che i designer più interessanti sembrano essere proprio i più giovani, tra cui Jason Wu, Batsheva, Altuzarra, Ludovico De Saint Sernin e Prabal Gurung.

Tra uno scivolone dettato dall’inesperienza (e forse da un team che non gli consiglia bene) di De Saint Sernin che sfila nel giorno dell’anniversario della morte di Alexander McQueen portando una palese copia dei suoi pantaloni ideati però nel lontano 1995, e tra un’ovazione per Gurung che fa brillare gli occhi anche alla serafica Anna Wintour rea di aver ucciso la moda d’oltreoceano, si può serenamente constatare che una delle storiche quattro capitali del fashion system stia riacquistando terreno (delle altre tre parleremo molto presto).

A cosa serve sapere questo?

Ad avere fiducia e ad aspettarsi ancora colpi di scena che possano definire la moda newyorchese ancor più impattante e rilevante. Una certezza c’è: la sua indipendenza. Non si può dire, come negli anni Sessanta, che lo stile americano sia una brutta copia di quello parigino perché ha trovato una sua direzione, quella del ready-to-wear accessibile e casual, capace di adattarsi alla vita frenetica, sportiva e dinamica di chi abita in America. 

Chissà se i giornalisti potranno ancora titolare la prima pagina del New York Times come nel 1973: “French Were Good, American Were Greater” (i francesi sono stati bravi, gli americani migliori), riferendosi alle collezioni americane di Halston, Anne Klein, Oscar de La Renta e Bill Blass portate a Parigi per dimostrare di avere altre doti oltre alla produzione in serie, ma sicuramente New York e i suoi stilisti stanno lavorando duramente per trovare la giusta balance tra visione, creatività e mercato. E i primi risultati si stanno già notando.

 

 

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