Fashion Nostalgia

Nel segno di citazioni storiche, turnover stilistici e abbracci confortanti.

Sono affezionata alla Fashion Week londinese perché ha una grande storia dietro, ma sembra importare poco visto l’indotto debole rispetto alle potenze di Milano e Parigi. 

Londra è sempre stata fucina di giovani talenti capaci di creare una moda ultra-innovativa e soprattutto libera, quasi anarchica. Già negli anni Sessanta i nuovi talenti cominciarono a rompere lo status quo stilistico proponendo una moda impegnata e piena di significati politici, sociali e culturali che non si era vista prima. A colpi di slogan e rivoluzioni, riuscirono ad offrire abiti giovani e frizzanti che strizzavano l’occhio alla libertà di espressione e intanto davano il colpo di grazia ai couturiers francesi, ormai produttori di abiti troppo costosi e opulenti che solo mamme e nonne potevano apprezzare. Da quel momento in poi, Londra non si è più tolta di dosso l’etichetta di capitale di moda alternativa e poliedrica.

The Swinging Sixties – Gli Anni Sessanta. Mary Quant inventa la minigonna.

E così, ogni anno, Londra dimostra di onorare queste caratteristiche sfornando stilisti capaci e promettenti, ma che spesso – e purtroppo – lasciano la capitale per andare nelle più rinomate case di moda francesi o italiane (vedere alla voce: John Galliano da Dior, Phoebe Philo da Céline o Alexander MCQueen da Givenchy). 

Quali sono le motivazioni per cui molti stilisti lasciano Londra per raggiungere capitali di moda più importanti? Lo scrivo sotto, ma come vi ho promesso, prima elenco i 5 trend che hanno sfilato nei giorni scorsi in occasione della quarantesima edizione della LFW: 

  • La doppia mutanda di Jw Anderson: un tributo al mondo accogliente e rassicurante dei nonni si materializza attraverso la sovrapposizione di più slip che sostituiscono gli shorts estivi. Le parrucche grigie e boccolose delle modelle, i fiocchetti applicati sulle canottiere come una volta, le pantofole e i cappotti over dai tessuti lanosi e spigati sono un chiaro riferimento alla “nonnitudine”. In un mondo sempre più incerto e mutevole, lo stilista porta in passerella l’autenticità confortante degli anziani, gli stessi protagonisti della sitcom inglese Last of the Summer Wine del 1973 a cui si è ispirato. Risultato? Il Grandpa Look sembra così normale da diventare anticonvenzionale, ché si sa, quando c’è incertezza o paura (in questo caso nella moda), sentiamo un po’ tutti il bisogno di farci coccolare dalla carezzevole tenerezza dei nostri cari nonni.
  • Il balletcore di Molly Goddard: volumi, pois e rouches si susseguono nella sala da ballo che affaccia su Regent Park. Trend che ci piace, sia perché richiama il romanticismo di Balenciaga e Dior ma con forme più libere e meno rigide, sia perché quantomeno la smetteranno di parlare di countrycore. Vogue e altre testate del settore continuano a gioire per il ritorno di cowboy e cowgirl, ma quando se ne sono andati? Mai. Siamo circondati da stivali da rodeo e cappelli da ranch (di dubbio gusto) da anni e anni. Sicuramente ha contribuito alla causa anche la serie tv di grande successo ideata da Taylor Sheridan, Yellowstone. Non credete?
  • Il peluche al posto della borsaSimone Rocha richiama un certo misticismo dark e misterioso attraverso cani pelosi portati al braccio come borsette. Avrete percepito nelle storie di Instagram la mia passione per la moda anni ‘90 e 2000, quindi la collezione “The Wake” che affonda le radici nel folklore celtico è un grande sì. L’estetica coquette fatta di corsetti, lacci, tulle, seta e fiocchi, si unisce a dettagli più inusuali come inserti di pelliccia sintetica e crocs di plastica.
  • Lo scaldamani tecnologico di Fashion East: una borsa da portare al collo come fosse una collana? Interessante. Una borsa che scalda anche le mani? Geniale. Sulla praticità e vendibilità di questo accessorio non stiamo a sindacare, ma è lodevole che il programma no-profit Fashion East ogni anno sostenga numerosi talenti emergenti dandogli carta bianca per creare ciò che vogliono. Questo incubatore di geni artistici fondata nel 2000 da Lulu Kennedy è stato il trampolino di lancio di Kim Jones, Simone Rocha e Jonathan Anderson per citarne alcuni. Non si può dire che non funzioni.
  • I nodi: oltre al trend floreale (avanguardia pura!) a cui non si sottraggono Richard Quinn, Molly Goddard, Simone Rocha, Conner Ives, Emilia Wickstead, Erdem e tanti altri, è il nodo il vero protagonista di questa settimana: stretto, morbido, in pelle, in lana, piccolo o voluminoso. Ecco alcuni esempi:

Perché è difficile essere stilisti a Londra? 

Ho letto questo articolo e non sono del tutto d’accordo. A Londra la creatività c’è eccome, ma non viene supportata abbastanza. E ora vi spiego perché. 

Nel corso della storia, Londra ha potuto vantare un ampio ventaglio di offerte artistiche e culturali utili a sviluppare creatività, innovazione e sperimentazione dentro i confini nazionali. Già nel diciannovesimo secolo, con la Great Exhibition del 1851, l’Inghilterra era riuscita per la prima volta a dimostrare l’alto grado raggiunto nei campi dell’industria, della scienza e delle arti. In quell’occasione, il Crystal Palace, struttura moderna in vetro e ferro battuto, si rivelò il simbolo concreto di un’istituzione unica al mondo capace di spingere lo sviluppo del paese. Seguirono il Science Museum, il Victoria and Albert Museum, e il Royal College of Art, che progressivamente contribuirono a plasmare una nuova generazione di creativi.

A metà degli anni Sessanta, i giovani capirono il loro potenziale a tal punto da muovere le scelte di mercato. Per la prima volta, non erano loro ad adattarsi alla moda, ma la moda ad adattarsi a loro. Londra diventò LA capitale della moda, un vero e proprio laboratorio a cielo aperto in cui forgiare stili, mode, ideologie politiche e gusti musicali. I giovani stilisti erano entusiasti degli spazi messi a loro disposizione per creare qualsiasi cosa senza pregiudizi estetici. Valeva tutto. La costruzione simbolica di Londra intesa come culla di sottoculture e calamita per giovani talenti ha significativamente contribuito alla sua allure, tanto da spingere ancora oggi le associazioni di moda internazionali a studiare le modalità con cui la città è riuscita a raggiungere e mantenere la sua reputazione. 

Magazzini abbandonati, aziende dismesse e spazi industriali dell’East London furono trasformati in gallerie d’arte, studi e loft al servizio di menti creative e promettenti. Le innumerevoli scuole di moda fecero il resto, tra cui la Central Saint Martins College of Art and Design, da cui uscirono John Galliano, Alexander McQueen, Stella McCartney e Phoebe Philo, tra gli altri.

Ma come mai Londra ha perso progressivamente terreno rispetto ad altre capitali di moda? Parigi, Milano e New York hanno visto una crescente proliferazione di marchi di lusso e una maggior concentrazione di settori produttivi qualificati rispetto a Londra nel corso degli anni. Inoltre, un paese che si concentra principalmente sui valori creativi potrebbe non essere in grado di soddisfare appieno le esigenze commerciali. Le conseguenze di questo sbilanciamento sono state molteplici:

  • tanti designer hanno preferito trasferirsi in città con costi di affitto o di acquisto di laboratori e negozi più accessibili
  • altri hanno scelto di non partecipare alle sfilate, preferendo esibire le collezioni via lookbook (quest’anno è stato il turno di Supriya Lele, Emma Chopova e Laura Lowena)
  • mezzi di comunicazione in svendita: l’iconico magazine i-D, fondato dall’ex direttore artistico di Vogue, Terry Jones nel 1980, è stato acquistato lo scorso novembre dalla modella Karlie Kloss. Promette di fare le cose in grande, ma c’è molto scetticismo dal momento che sta trasformando la pubblicazione in una newsletter 

Il periodo post Brexit

La scelta di uscire dall’Unione Europea ha esacerbato ulteriormente la già precaria situazione della fashion industry londinese. Molti talenti si sono spostati in città come Berlino, Anversa e Barcellona, dove i costi di produzione e vendita sono più sostenibili. L’ aumento dei costi ha infatti scoraggiato imprenditori e consumatori, creando ulteriori difficoltà per il settore. Le conseguenze includono la perdita di talento, la riduzione della competitività e una diminuzione dell’attrattiva per i consumatori. Insomma, ci vuole coraggio per essere stilisti oggi. A meno che non ci si chiami Victoria Beckham, esempio più unico che raro di brand di lusso indipendente che gode di ottima salute e indipendenza (al netto dei milioni di debiti che si porta dietrocon nonchalance). Con la benedizione di Anna Wintour, che dal 2011 siede alla destra del padre Beckham e alla sinistra della figlia del calciatore e della cantante durante la sfilata, Victoria riesce ad operare senza i vincoli commerciali e aziendali tipici degli altri designer acquisiti da conglomerati come LVMH (Louis Vuitton Moët Hennessey) e KERING (Pinault Printemps Redoute fino al 2013). Tanto che dal 2022 sfila a Parigi e non più a New York.

Milano Fashion Week e il turnover della Moda

Che risultati quest’anno! L’impatto economico e commerciale della MFW ha superato le aspettative, registrando un indotto di circa 70 milioni di euro, il che rappresenta un aumento del 22% rispetto al periodo pre-pandemia. Anche se dovremo aspettare fino all’ultimo giorno di fashion week (il 26) per ottenere dati più precisi, è evidente che i 161 eventi, 56 fashion show e 5 passerelle digital hanno attirato più addetti ai lavori e turisti rispetto agli anni precedenti.

Dati che fanno ben sperare a parte, l’hype era riservato a tre brand guidati da tre nuovi direttori creativi: 

  • Walter Chiapponi da Blumarine: ha colto una sfida ardua ma affascinante nel sostituire Nicola Brognato. Il brand, pietra miliare del costume italiano, nelle ultime stagioni non è riuscito a distinguersi per mancanza di profondità e innovazione. Lo stilista, dopo quattro anni da Tod’s, ripropone l’estetica coquette ma anche pericolosa dei Nineties. Sognante.
  • Adrian Appiolaza da Moschino: ha avuto poco tempo per elaborare la collezione perché è subentrato a Davide Renne, tragicamente scomparso l’11 novembre scorso. Si trova quindi a dover onorare il lavoro del suo predecessore e a rinvigorire il brand dopo dieci anni di insignificanza culturale. Il risultato è più che soddisfacente. Scava nell’archivio di Franco e riporta in auge il suo citazionismo stilistico (l’Italia, il peace and love sign, le nuvole, il punto interrogativo, i pois…) al confine col surrealismo di Schiaparelli e Dalì. Spiazzante.
  • Matteo Tamburini da Tod’s: è stato scelto dal CEO Diego Della Valle per il suo talento. Arrivato direttamente da Bottega Veneta, il suo percorso accademico e lavorativo fa emergere una spiccata fusione tra modernità e tradizione, celebrando sempre la qualità della materia prima e l’artigianato italiano. Confortante.

Cos’è successo negli ultimi giorni?

  • è passato solo un mese da quando Farfetch è stata acquisita da Coupang, eppure il fondatore e CEO Jose Neves ha già lasciato la carica (aveva fondato l’e-commerce nel 2007) e qualcuno presto lo seguirà. Intanto il conglomerato del lusso Kering toglie Gucci, Balenciaga e Saint Laurent dalla piattaforma e-commerce di Farftech. Secondo BOF (Business of Fashion) questa mossa non può che essere controproducente in termini economici
  • McQueen ha cambiato direzione creativa e logo. Sean McGirr al suo arrivo ha svelato alcune immagini della nuova campagna fall 24 che si vedrà meglio il 2 marzo durante la Paris Fashion Week (brand inglese che sfila a Parigi appunto). Il nuovo logo riporta la c dentro alla Q come 30 anni fa con il fondatore Alexander, guarda
  • Apple Tv ha realizzato una serie tv sulla vita e il talento creativo di Christian Dior. Si chiama “The New Look” ed è interessante perché racconta anche il lavoro dei colleghi Coco Chanel, Lucien Lelong, e Pierre Balmain. Io intanto ho finito di guardare il documentario di “Cristòbal Balenciaga” su Disney+ e vi dirò presto cosa ne penso

2 commenti su “Fashion Nostalgia”

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